Architetture
223
wp-singular,page-template,page-template-full_width,page-template-full_width-php,page,page-id-223,wp-theme-bridge,wp-child-theme-bridge-child,bridge-core-3.1.7,qi-blocks-1.3.5,qodef-gutenberg--no-touch,qodef-qi--no-touch,qi-addons-for-elementor-1.8.9,qode-page-transition-enabled,ajax_fade,page_not_loaded,,vertical_menu_enabled,qode-title-hidden,qode_grid_1300,side_area_uncovered_from_content,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-30.4.2,qode-theme-bridge,disabled_footer_top,qode_header_in_grid,wpb-js-composer js-comp-ver-7.6,vc_responsive,elementor-default,elementor-kit-8

Architetture

Accomunati – pur nella diversità di atteggiamento e con punti di vista, anche ideologici, talvolta opposti – da un’acuta insofferenza per le soluzioni precostituite, da un’ansia di sperimentazione, da un umorismo capace di sovvertire dall’interno ogni norma o regola apparentemente scontata, Jaretti e Luzi producono opere che evidenziano, nel variare dei linguaggi adottati e delle condizioni al contorno, la rielaborazione di alcuni temi ricorrenti. Fra questi, l’interesse a concepire gli organismi edilizi come oggetti dotati di una forte individualità, in grado al tempo stesso di risaltare nella trama della città e di istituire con essa relazioni inedite; il rifiuto del concetto di ripetizione, e quindi ad esempio – sinché possibile – del “piano tipo”, che li conduce ad adottare spesso ardite soluzioni tipologiche; l’attenzione dedicata al rapporto fra interno ed esterno, che produce una «moltiplicazione dei legami fisici e visuali delle [loro] case,

con le vie che le disimpegnano» (M. Vernes); l’interesse per i temi della produzione edilizia, che porta i due architetti a proporre usi inconsueti degli elementi base della costruzione (emblematico il caso del mattone paramano, utilizzato di quarto nei tamponamenti di molte loro case degli anni sessanta), ma anche a progettare quegli stessi elementi (come nel caso delle sperimentazioni con la pietra artificiale negli anni cinquanta), per trovare, non solo nella messa in forma del dettaglio costruttivo, un ulteriore e talvolta residuale spazio di lavoro, nell’inesausto tentativo di caratterizzazione dell’architettura. Punto di partenza di molti loro progetti è l’acuta e spiazzante interpretazione dei regolamenti edilizi, che diviene anche un modo per contestare la capacità delle norme di incidere sui processi di costruzione della città. Dall’analisi minuziosa di tali regolamenti e talvolta delle loro interne contraddizioni, Jaretti e

Luzi puntano a trarre tuto l’utile possibile, in termini sia di superfici e cubature (in ceri casi abilmente sottratte così, in modo assolutamente legale, dal conteggio finale effettuato dagli enti preposti al controllo), sia di possibilità di nuove e spesso impreviste articolazioni dello spazio. A questa peculiare capacità di ritorcere contro se stesso il «formalismo del pensiero burocratico» (Luzi) si affianca un continuo lavoro di affinamento del disegno, del ragionamento distributivo, di uno studio compositivo verso il quale i due architetti ostentano indifferenza, ma che in realtà risponde a un «caso programmatissimo» (R. Gabetti). Fra le prime collaborazioni dei due architetti, il progetto per il palazzo dell’Obelisco (1954-59) – realizzato in un piccolo lotto ai piedi della collina, in un quartiere della città punteggiato di significative architetture ecclettiche e liberty – ricerca in modo del tutto originale,

a partire da una forte urgenza espressiva, una via di fuga dalle strettoie dell’ international style di maniera. Vengono condensate così, in un oggetto edilizio complesso, attenzioni storiografiche, citazioni stilistiche, sperimentazioni tipologiche e reinterpretazioni tecnologiche di materiali dalla lunga tradizione, come la pietra artificiale. Un unicum destinato a non venire replicato e, almeno inizialmente, scarsamente compreso, come dimostra la stroncatura nel 1958, a cantiere non ancora concluso, di Paolo Portoghesi su «Comunità». Negli stessi anni Jaretti e Luzi sono chiamati dal costruttore Manolino a progettare la propria residenza (1955-56) in via Roma a Chieri, intervenendo su una struttura già in pare eseguita: l’esito è un pastiche linguistico che gioca con l’accostamento di “pezzi” provenienti da diversi repertori architettonici, rivolto a saggiare il potenziale espressivo e la carica al tour de force delle torri Pitagora (1962- 68).