Il palazzo dell’Obelisco è l’opera che segna l’esordio in grande stile di Sergio Jaretti e Elio Luzi, inserendosi – a suo modo – nella stagione del cosiddetto neoliberty italiano. Come altre e più celebrate architetture torinesi di quegli anni, essa diviene da subito oggetto di critica. Paolo Portoghesi, dalle pagine di «Comunità» (1958) legge nell’edificio «una ridicola commistione che ha un vago sapore di fantascienza», di «forme di Gaudì e di Wright». Alla ricerca di una via di fuga dal mainstream tardorazionalista, il progetto di Jaretti e Luzi, estroverso, ironico e a tratti surreale, rimane a lungo non compreso. L’articolazione degli spazi interni, con cinque unità su dodici organizzate su più livelli o con ambienti a doppia altezza, e nessuno schema di pianta ripetuto, è il primo elemento di forte singolarità dell’opera, contenuto già in una versione iniziale del progetto caratterizzata da forme wrightiane, poi abbandonate. Scalinate, soppalchi, affacci da balconate interne, fino al “belvedere” in copertura, moltiplicano i punti di vista e le possibilità di godimento dello spazio, reinterpretando alcuni elementi tipici di una tipologia suburbana come la villa. Si tratta dell’esito di una ricerca che punta al «massimo sfruttamento qualitativo e quantitativo dell’area» (Luzi) e che viene condotta a partire da un’interpretazione astuta e ironica di alcune norme edilizie: evocando ambienti fantastici dalle cui scale «arriva sempre qualcuno […]: Greta Garbo, Marlene Dietrich» (Luzi), ciò consentirà di realizzare circa un terzo di superficie in più di quella che si sarebbe potuta ottenere altrimenti.
Questa impostazione del tema progettuale sostituisce il punto di partenza per avviare la collaborazione con il costruttore Bartolomeo Manolino che, interessato a orientare in modo nuovo la propria attività, decide di scommettere sull’esistenza di una domanda residua di qualità. La realizzazione del progetto impegnerà di fatto Manolino in un vero tour de force. Complice la stessa impresa, Jaretti e Luzi ne avevano infatti messo a punto una seconda e ben più complessa versione – con una forma flessuosa, turgida, trattata come un «mandorlato di delizie» (Luzi) – esplicitando in modo provocatorio i propri immaginari eterodossi, da Gaudì all’art nouveau, da Guarini a Steiner, senza trascurare le opere “minori” realizzate fra Otto e Novecento da alcuni architetti locali. Nell’ingresso d’angolo, il virtuosismo di questa impostazione si legge in tuta la sua potenza immaginifica, richiamando un mondo di forme fantastiche ma anche di tecniche e di saperi artigianali ancora vivi e operanti. Per realizzare l’involucro «continuo e flessibile come la pelle umana» (Luzi) i tamponamenti a cassavuota sono costituiti esternamente dalla sovrapposizione di elementi prefabbricati in pietra artificiale prodotti, da un laboratorio di stuccatori e cementisti dalla lunga tradizione, tramite il getto entro forme di un impasto cementizio composto, nello strato superficiale “di fodera”, da Portland bianco, graniglia, polvere di pietra e mica. Al piano terreno e in alcune altre pari dell’edificio, questi elementi costituiscono cassero a perdere dei pilastri in cemento armato. Alla pietra artificiale fanno da contraltare i ferri battuti delle ringhiere e dei loro elementi verticali di raccordo, i mancorrenti in plastica rossi e i grandi serramenti pivotanti. Anche all’interno l’uso dei materiali, come gli originari rivestimenti in Muralfex rosso di atri e scala, costituisce elemento di qualificazione di un disegno più generale, che mette al centro il piacere di abitare e quella joie de vivre che informa molta pare dell’opera e dell’esistenza stessa di Jaretti e Luzi.